VAN GOGH, PALAZZO BONAPARTE

di Francesca Sallusti

Roma Mostra Van Gogh

Apre la mostra una sala dedicata a pittori coevi a Van gogh, come Renoir o Gauguin con “Atiti”, opera del 1892, esempio vivacissimo di sintesi formale, evidente soprattutto nella mano, come pura materia lignea in contrasto con il crocifisso, eppure in un colloquio sincero, a formare un unico organismo.

Una morte sensuale e viva respira in un corpo chiuso come uno scrigno, incassato teneramente.

Troviamo anche Picasso nella sua esperienza post impressionista con la “Madrilena”, opera del 1901, generata da una pittura a pennellate, lontana dal suo linguaggio futuro ma tuttavia munito di una sua grinta nell’ardore del volto.

Con una serie di opere del 1881 si apre l’esposizione di Vincent van Gogh, come ad esempio “Donna che pela le patate”, opera con acquarelli e gessetto su carta vergata, aggiornata sulle opere di quel momento artistico, soprattutto su Cezanne in una maniera che rimane suggestione estetica, nella composizione per volumi sovrapposti, a concepire una solidità geometrica, sintetica. Il braccio, di una proporzione lievemente spropositata, dolcemente disconnesso dal tempo del suo corpo, finisce il suo pellegrinaggio nella mano, ovattata e sorda e, polmone dell’opera.

Il seminatore”, oserei dire, opera gemella della precedente, nella destinazione sintetica per piani, nella costruzione quasi astratta delle forme per piani connessi geometricamente, rivela una santità nell’uccello che si capovolge al di là dei suoi occhi ma che è parte del suo sguardo; come una icona esposta fuori dalla sua collocazione e che segna una forma indipendente.

Ovviamente, questa somiglianza a Cezanne è dovuta, in questo caso, più che a una consapevolezza di volerlo riprodurre scientificamente al predominio della linea che caratterizza il periodo iniziale della sua opera.

In “Donne nella neve che portano sacchi di carbone”, carboncino, acquarello opaco e inchiostro su carta velina, ancora una costruzione rigorosa, antinaturalistica, visionaria. I volti appena visibili, come intestini, come parti finali di intestini, come “la parte più sporca di un intestino”.

Donna seduta vicino alla stufa”, con matita, penna e inchiostro nero, acquarello bianco opaco su carta vergata, le forme si fanno più lievi, di una compattezza prossima a una redenzione, a un abbandono. Le mani, come bussole serrano l’andamento plastico e nel viso la nascita di una metamorfosi tra pensiero e letargo.

In “Mangiatori di patate”, litografia su carta velina, come in molte di questa prima produzione di opere “nere”, prima che il suo lavoro esploderà nel colore, l’umanità rappresentata pare portare, nei tratti, in alcuni lineamenti come i nasi, gli occhi e le gote una “certa bestialità”, e nei gesti una spiritualità cristiana.

Nelle due contadine “Contadina che raccoglie il frumento” e “Contadina che lava una pentola”, si ripropone, nella costruzione, l’immagine bestiale, come insetti angelici, nella contorsione finale dei corpi, nel tormento amoroso delle intenzioni, nella dedizione del produrre per una sopravvivenza dignitosa, nello sforzo puntuale che ha come destinazione il decoro sociale.

Nel “Tessitore con telaio”, olio su tela, la ‘congettura spaziale intellettualistica’ è protagonista di tutta l’opera e lo strumento porta lo stesso respiro del tessitore, entrambi sono parte dello stesso meccanismo, la parte umana è parte degli ingranaggi, è composta della stessa materia del telaio in un tentativo del tutto riuscito rispetto alle idee che Van Gogh aveva del lavoro e della sua dignità.

Nel volto soprattutto è espressa la materia lignea che ruba alla carne il suo posto e che si colloca come una visione su di esso.

L’apporto grandioso e stupefacente che Van Gogh porterà all’arte posteriore pur non riconoscendosi completamente nei suoi contemporanei, emerge elegantemente e non solo in “Contadini che piantano patate”, olio su tela, situata in un momento della sua opera in cui il colore comincia a prendere una sua identità, anche grazie alle conquiste dei suoi contemporanei sulle tonalità dei colori e anche a un interessamento all’opera di Delacroix.

In questa opera già sono già percepibili le conquiste espressioniste nel gestire le fisionomie distorte e staccate da una visione oggettiva, i colori ancora non completamente dirottati ma proiettati nella prima esperienza di una indagine sperimentale, come la fioritura dell’adolescenza o come una precoce vista al primo alito della luce.

Le figure centrali, esplicite e sode, imprigionano il tempo posto nel cielo sopra di loro, un cielo esplicito altrettanto, materico, abbondante, come del resto tutta la sua produzione che ricerca una solidità morale piuttosto che spirituale, anche quando la sua ricerca verterà non più verso temi che rappresentano e innalzano la questione popolare.

Ciò che noto in Van Gogh è la costante presenza di un ‘fatto terreno’ da portare sulla tela.

Ne “Il giardino del manicomio a Saint-Remy”, nonostante l’ardore del colore, che pare estendersi al di fuori della tela e che potrebbe portarlo a una elevazione spirituale, è incessante la necessità di un approccio terreno, come una spiritualità che soccombe piuttosto che elevarsi, come una rarefazione che s’addensa.

Appena ci si ferma davanti alla tela pare di avere davanti una risposta. I piccoli frutti e i fiori dell’albero hanno una vitalità reale, sono realmente esposti al vento e alla luce e il fogliame porta l’espressione del pensiero e dell’idea che li ha generati; dunque in una sola opera coesistono il trionfo della forma reale e del pensiero.

Un’opera che rappresenta Van Gogh pienamente, un’opera emancipata, intima, dove finalmente tutte le sue preoccupazioni scientifiche, a cui tanto tempo aveva dedicato, prendono una loro voce, appunto si emancipano per creare un’opera piena, indipendente, maestosa.

Questa tela è l’opera di un essere umano tenace che ha svolto tutto il suo lavoro per dare un tono alla sua voce che era muta e dove è emerso l’approdo della sua potenza.

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