ALBERT CAMUS, LO STRANIERO 

Forse, questo cielo, è l’unica “realtà” di Camus

di Francesca Sallusti
Arte Letteraria

Il cielo di cui parla Camus è il cielo di  Camus, un cielo estraneo agli altri cieli perché conosciuto intimamente se non riconosciuto completamente; non è incastonato sopra la testa per caso, credendo che si tratti di un cielo qualsiasi o; di un cielo comune. La parola ‘cielo’ e il suo essere sostanza e materia si affaccia come un soldato, puntuale in quasi ogni pagina ; lo si può incrociare e trarre, fragrante come un nome alla guida di un concetto o subordinato al cospetto di una frase; ha un’identità talmente certa e costante, ricorrente, che nella sintassi subisce metamorfosi continue e imprigiona l’andamento della nostra comprensione all’interno del concetto; ci rapisce e invaghisce i nostri sensi, stordisce il punto di vista; è come una prospettiva matematica, nuova e straniera. È un’insegna che emerge per illuminarci, salvarci o sollecitarci. L’architettura della sintassi è obliata da questo nome che in Camus diventa perpetuo e fine a sé (nell’accezione positiva) “Maman est morte aujourd’hui. Ou hier peut-être, je ne sais pas”, in questo incipit si traduce l’essenza di Camus, emerge l’intenzione di estrapolare la realtà dalla realtà,  illustrandone i principi, le dinamiche, le ricchezze e le perplessità(così care a Camus in quanto vita reale e scorrimento naturale delle cose) e gli eventuali progressi spirituali, in quanto questa realtà(quella di Camus) è l’unica certezza; un infante appena sorto alla vita, un infante ancora puro ma già compromesso, che accetta la sua condizione insensata facendosi nello stesso momento pastore e candida figura umana, testimone di una visione, portando questa testimonianza come un segreto; un segreto che non è lui a voler tenere celato; questa è la realtà maneggiata da Camus.“Così farò la veglia”, nel racconto i dettagli quotidiani e la prassi sono inseriti dentro a una disperazione che è una presa di coscienza, la coscienza di Camus, la coscienza per antonomasia; dentro a una disperazione estesa, matura e pronta a soffrire in silenzio, che è l’unica misurazione che Camus adopera per capire i dettagli del mondo, di se stesso e dei suoi simili; per capire i meccanismi. La disperazione non è un sentimento o un avvenimento che decora un essere umano e cadenza la sua esistenza ma è un’esistenza è, la personificazione del suo essere al mondo, è straniera e, colma, seppur disperazione, di grazia. Precipitosa s’appresta a tutto. Quando dice “Lui era custode, e, per certi aspetti, aveva dei diritti su di loro”, entra nelle viltà e nelle gerarchie di potere dell’umanità in maniera placida e con una disattenzione puntuale, giungendo a una emancipazione di ragionamento e di affrancamento da ogni logica ‘morale’; c’è una sospensione del giudizio e, c’è il respiro della vita che dal cielo cade su di noi, ungendoci. Camus è straniero, è lo straniero che porta lo stendardo della vita, ripiegato su se stesso-dal peso, traduce il messaggio primo e necessario dell’esistenza, porta addosso il dolore di tutti e, la vita e l’assenza di destinazione di quest’ultima, germoglia sul suo corpo e nel suo cuore e ne fa il primo orfano e l’unico, lo ‘scelto’, illuminato da non so qual luce del ‘cielo’. Camus non giudica quando afferma che ”per un istante ho avuto la ridicola sensazione che fossero lì per giudicarmi”, talmente è esasperato dalle infinite possibilità della vita; possibilità legate a varie risposte e opzioni da poter dare rispetto a un unico quesito; anzi si sente inopportuno in quanto detentore di una testimonianza mentre l’umanità continua a detestarlo per questo, a bandirlo per i suoi vezzi aristocratici(i flussi del pensiero); tuttavia Camus non li castiga, ed è questo lo snodo o il raccordo di tutto: l’assurdità della vita che lui accoglie tra le sue mani, facendone una vita degna, una vita. “Il sole aveva squagliato l’asfalto. I piedi vi affondavano e lasciavano aperta la sua polpa scintillante. Sopra il carro, il cappello del cocchiere, di cuoio lucido, sembrava essere stato impastato in quel fango nero. Ero un po’ sperduto fra il cielo azzurro e bianco e la monotonia di quei colori, nero gelatinoso dell’asfalto aperto, nero smorto degli indumenti, nero laccato del carro”; c’è una raffinatezza ‘organica’ nelle sue descrizioni, una ri-appropriazione di un dato essenziale, primigenio, vitale; estrapola dalle viscere delle cose il fiato antico. Le sue parole sono semplici, come del resto è semplice la parola cielo e, si fanno verbo; verbo che perlustra le intenzioni e ne ascolta gli idiomi assoluti, lasciando delle tracce che divengono contingenze. Camus non battezza ma lascia ai ‘nomi’ l’idea di perpetuarsi, e così; Nicetta, nella sua felice casta sociale s’accascia e, al suo nome s’accosta una traccia perpetua o una contingenza e, Sabina, nei lombi della ‘bella espressione’ si disarma e, ritorna alla sua voce grezza.  Camus è estraneo addirittura all’esistenzialismo, addirittura a se stesso ma non al cielo; il cielo è lui stesso, siamo noi, sono gli accadimenti, sono le condizioni e le clausole; è il cielo umano, figlio di un cielo assoluto e che illumina le nostre gote. Camus ce lo porge come se non l’avessimo mai conosciuto, ci indica il suo nome, ci illustra il suo colore che è sempre lo stesso, lo stesso cielo che noi sempre abbiamo sfiorato per scaldarci ma di cui non conosciamo la storia, il nome, la fragranza e l’andamento; è lo stesso cielo che ci bagna ma che non ci ha mai toccato né fatto male; quando preme il grilletto stringendo la pistola tra le sue mani è sotto al cielo; quel cielo che non lo giudica e che lui non giudica; è un colloquio straordinario. Lo straniero  più di ogni altro romanzo, identifica e dà forma al pensiero senza lingua di Camus; distrugge ogni riferimento umano e rassicurante su cui l’essere umano ha approdato: Meursault non è addolorato della morte della madre ma preferiva che non morisse e nello stesso momento viene quasi messo a morte perché al funerale non era abbastanza addolorato della morte della madre; di qui l’assurdità e la menzogna umana nel cercare una risposta in quanto esseri umani. Meursault non ha ucciso e ha ucciso un corpo morto. Meursault non ha filtri e parla in maniera schietta e senza meraviglia, non tenta nessuna via di fuga e in questa mancanza di filtri infila la sua purezza; “odori di notte, di terra e di sale mi rinfrescavano le tempie”, dice pochi minuti prima di morire, porgendoci il senso della vita e dimenticando quel cielo umano che ci accompagna durante la vita. Meursault riesce a guardare il mare, che è un piccolo mare, dalle sbarre senza nessun pentimento o dramma; lo guarda come si osserva un piccolo mare in un dipinto fiammingo, dettagliato e piccolo; in lontananza: osserva un mare nel pensiero, lo spia e si potrebbe chiedere se davvero esiste o se il suo nome è proprio ‘mare’.

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