AMORI MODERNI

di Luca Bottari e Francesca Sallusti
Vincent Gallo

Dietro ed intorno a loro battibeccavano la disperazione e le speranze di povere anime nei guai.

Con la sua presenza vistosa un muro di vetro poco abilmente frenava alcune mie costanti e più o meno inconsce paure. Dopo anni di fotocopie e sorrisi compiacenti, con i segni sul collo del peso quotidiano della somma delle vessazioni e degli sguardi provocatori accumulati dai piani alti dello studio, come avvocato penalista, ero arrivata nel carcere per seguire le mosse di questo nuovo cliente. Mi ero vestita in modo sobrio ed avevo messo su un’espressione compiuta di circostanza. Ma ero davanti a lui nuda con tutta l ‘anima di fuori. Vedevo sudare le fronti dei minori sotto la minaccia di un cumulo di promesse per forza di cose presto o tardi disattese. Sentivo nel cuore la morte sul nascere delle mie deboli frasi di circostanza. Le avevo confezionate a dovere per il mio cliente in una di quello notti che somigliano di più ad un giorno torrido, senza manico e senza istruzioni, un mostro che non riesci mai a tenere sotto controllo. Si trattava di quell’interminabile arco temporale, noto in maniera esclusiva al solito manipolo di solerti addetti ai lavori. Sicuramente il mio cliente sapeva meglio di me come ci si sente quando la notte ed il giorno si confondono, si somigliano, ed invertono il loro valore intrinseco. Davanti a me Enrico si presentava come un carcerato, un uomo stanco, bisognoso, avido di qualcosa. Quarant’anni o qualcosa di meno, taciturno, fondamentalmente brutto ma ricco in viso di quella esasperazione che rende un uomo al cospetto di una donna eroico e vincente, una sorta di Achille prima della sua fine.

Io ero il suo avvocato, una donna di ventinove anni, sposata con due figli piccoli, con le sue curve in evidenza, già consumata dal lavoro e dall’odore dei pannolini. Da allora abbiamo continuato le nostre vite in modo distratto e sentivamo l’eco di qualcosa di distrutto ma una conchiglia si era depositata sul fondo di un mare che solo noi conoscevamo.

In quegli anni i genitori di Enrico lavoravano ancora nei campi, i miei consanguinei invece erano ancora i miei benefattori carnefici ed io correvo e faticavo per tenere testa alle loro aspettative. Tutti eravamo coscienti dei profondi cambiamenti del periodo; il progresso industriale della FIAT, la rivoluzione di piazza, il risveglio della coscienza femminile e la sua emancipazione, il boom edilizio, il referendum sul divorzio e la disperata battaglia per la depenalizzazione dell’aborto. Intanto il padre dei miei primi due figli mi faceva sentire male o meglio mi riteneva priva di qualsivoglia carica emotiva e non ero in grado di essere empatica. Avevamo raggiunto un tenore di vita alto, avevamo molti amici, forse mi tradiva. Enrico era uscito di galera nel 1976 grazie ad uno sconto di pena. Si era trovato lavoro presso un negozio di elettronica nel cuore della città. Lavorava in maniera efficiente, puntuale. La sua quotidianità era trainata dalla dedizione che impiegava per accontentare le esigenze dei clienti abituali come di quelli occasionali.

Una tarda mattinata di giugno, quattro anni dopo quel nostro incontro in carcere, girando come una turista nel centro storico di Roma, intravidi Enrico che stava fumando una sigaretta fuori dal negozio in cui lavorava. Non lo guardai in modo prolungato e passai tranquillamente avanti come poco interessata all’accaduto. Dopo pochi passi mi sono fermata ed ho controllato qualcosa che si muoveva nella borsa e nelle viscere, per poi riprendere il mio cammino. Neanche Enrico si curò abbastanza di quell’istante di leggera intesa. Continuava a fumare la sua sigaretta. Quel veloce volo di sguardi, apparentemente senza significato, infilò qualcosa di forte dentro di noi. Come un ritmo incessante che batteva sul cranio, una vita parallela già viva anni prima ma in trappola. Continuavamo le nostre quotidiane mansioni sempre con la stessa volgare scadenza, ma spinta da un sentimento che non riuscivo ad isolare e che mi distoglieva dal mio torpore, tornai con impeto malandrino di nuovo davanti a lui. Enrico mi sorrise e cominciammo così un dialogo dolce, pulito e franco. Ci mettemmo del tempo per uscire insieme. E quella necessità di passare del tempo insieme si fece più aggressiva. La nostra non era propriamente una storia d’amore baci, progetti e promesse. Era un insieme compatto ma disordinato di contatti intimi ma a distanza di sicurezza, forti come la lealtà alla corona, come un dato oggettivo, un embrione concepito magicamente senza l’atto fisico a cui non si trova mai un nome adatto. Fino a che un giorno, camminando mano nella mano per la città, tra una commissione ed una piccola spesa da piccolo borghese, per l’esattezza l’ultima del microcosmo piccolo borghese, ci siamo voltati nella stessa direzione e ci siamo baciati. Dopo qualche settimana, vivevo praticamente da Enrico, la mia vita era cambiata. Eravamo una coppia sotto ogni punto di vista. La nostra vita era appagante, il sesso inebriante e diverso da come lo conoscevo. Lasciai mio marito e non smisi mai di prendermi cura dei suoi figli, dei miei figli.

Io ed Enrico ci amiamo ancora. Abbiamo avuto un figlio che ora ha quasi quarant’anni. Quando ha fatto 18 anni si è trasferito con un amico in un’altra zona della città per frequentare L’Accademia di Arte Drammatica. È un uomo robusto. Vedi la sua forza nelle pieghe delle mani che sembrano radici. Ha una forma leggera della sindrome di down. I suoi tratti somatici sono solo lievemente scolpiti dalla sindrome ed il suo modo di parlare è abbastanza scorrevole e comprensibile. Sfuggendo a quei terribili luoghi comuni che ci crescono spesso dentro e che a volte subiamo, tutti insieme, famiglia allargata o meno, abbiamo creato un’arca di Noè in cui siamo riusciti, non sempre, ma spesso, ad essere felici. Sono anziana e discretamente malata. I miei tre figli ce la faranno anche senza di me. Sono stati amati. Enrico ancora mi fa sentire amata e spero di andarmene con questi ricordi e queste certezze nella mente e nell’anima.

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