DANIEL VARUJAN, IL CANTO DEL PANE

solo nel rosso del suolo della mia patria

di Lorenzo Carlucci

Propongo alcune poesie di Daniel Varujan, che non conoscevo fino a pochi giorni fa, prima di trovare il suo “Canto del Pane”, a cura di A. Arslan, Guerini e Associati editore, V edizione, 2004. Non conoscevo questo poeta armeno, nato nel 1884 e morto nel 1915, non conoscevo questa sua raccolta, rimasta incompiuta e uscita postuma nel 1921.

La Arslan scrive nell’introduzione:

“Nel panorama dei grandi poeti del simbolismo europeo, Daniel Varujan riveste un’importanza particolare. Armeno di Perknik (Anatolia) educato a Costantinopoli, e successivamente a Venezia e a Gand, egli riesce a fondere i diversi orizzonti poetici che lo formarono in una sintesi poetica originalissima, che su tonalità e timbri schiettamente orientali innesta una conoscenza diretta e feconda della grande poesia contemporanea occidentale”.

La “sintesi” di cui parla la Arslan sembra davvero tale: le tante eco che la lettura di questi versi portano con sé, al nostro orecchio, sono come subitaneamente riassorbite, e convogliate attraverso un canale strettissimo che permette alla voce di colpirci con magnificata potenza ed esattezza. Scrive ancora la Arslan, nella Nota:

“La sua è una lingua amplissima e colta, che assume tutte le ricchezze della grande tradizione armena, integrandola però con moltissime sfumature del linguaggio parlato […] vocaboli ’alti’ e illustri entrano in risonanza, illuminandosi e potenziandosi a vicenda, con la robusta concretezza e varietà della terminologia attinente alla vita della campagna e alla natura anatolica, straordinaria per precisione e forza evocativa.”

Sintesi ancora – qui, di “precisione” ed “evocazione” – con un accento forse da porre sulla “precisione”, perché ciò che stupisce è proprio la capacità di prescindere dall’inessenziale, pur concedendosi alla ricchezza semantica, pur nell’uso largo di metafore tradizionali, come se Varujan fosse capace di modulare la voce così da tagliarne via l’eco, l’indeterminato rimbombo, la deriva semantica automatica. Un indizio di come vi riesca, possiamo leggerlo qui (ancora dalla Nota della curatrice):

“Ma Varujan è sempre concreto, e la sua originalità di poeta sta anche nell’uso improvviso – e inaspettato dal lettore – di vocaboli ’forti’ là dove nella poesia occidentale si tende all’eufemismo o all’attenuazione semantica (’utero’, non ’ventre’, ’mammelle’ e non ’seni’ della madre terra): per renderlo in italiano è stato necessario prendere meticolosamente le distanze dal linguaggio poetico della nostra tradizione ’rusticale’, anche di quella novecentesca.”

Tra il 1902 e il 1909 Varujan è in Europa, prima a Venezia poi nelle Fiandre. E’ a contatto diretto con la poesia europea. In una lettera scrive: “Due ambienti hanno influito su di me: Venezia col suo Tiziano e la Fiandra col suo Van Dyck. I colori del primo e il realismo barbaro del secondo hanno formato il mio pennello.” (Lettera a Theodik). Nel 1909 Varujan ritorna nella sua patria. Tanto, ai miei occhi, significa questo ritorno. Il centro di Varujan non si è spostato. Rimane a Costantinopoli, rimane al centro della campagna. Il suo “pennello” si è “formato”, Varujan ha letto Carducci, Pascoli, Rimbaud, etc. Ma il suo “Canto del Pane” canta dei contadini, dei buoi, della trebbiatrice. Canta della terra, con una voce che ci arriva come quella di un commensale in una osteria. Con una voce che ci ricorda come anche il giovinetto della nostra modernità, Rimbaud, riconosceva nella Natura la sua unica padrona. Innocence, innocence. E: Par la Nature – heureux comme avec une femme. Di Rimbaud tendiamo ad ascoltare soltanto le parole dello squilibrio, perché sono più facili, sono più prossime alla nostra debolezza, nella loro generosa innocenza si lasciano sedurre dalla nostra corruzione. La sua voce incorrotta di bue è quasi perduta. Par la Nature comme avec une femme. Io spero che la lettura di Varujan possa aiutarci, anche, a riconoscere questa règle del dérèglement. Perché in Varujan cade anche il “comme”. Il trapasso dalla somiglianza all’identità, altro marchio del simbolismo europeo, certo. Ma nel simbolismo europeo (e, poi, nelle avanguardie) questo trapasso è divenuto spesso soltanto letterario, e in quanto tale una sorta di maledizione, un esercizio di predicazione senza soggetto, una sorta di ghematria eretica. Perché è un trapasso che non può compiersi se l’identità non è retta dall’unità di una vita. Di una vita fisica, di una vita individuale. Di Varujan che ritorna fisicamente in patria. Di Varujan che “è il contadino e ama le sue bestie” (A. Arslan). E’ nella stessa Lettera a Theodik sopracitata, che Varujan scrive: “Ho intinto [il mio pennello] solo nel rosso del suolo della mia patria, nel suo mare di sangue”.

Le traduzioni di “La semina” e “Papaveri” sono di B. L. Zekiyan, le traduzioni di tutti gli altri testi sono di Antonia Arslan e Chiara Haiganush Megighian.

Bibliografia

J. Achrafian, Diciotto poesie armene, Him, Roma, 1939; Id. “Daniel Varujan”, in Orfeo. Il tesoro della lirica universale, a cura di V. Errante e E. Mariano, Sansoni, Firenze, 1949; Id. “Daniel Varujan”, in La poesia armena moderna. Poeti armeni dell’Ottocento e del Novencento, a cura di padre M. Gianascian, Mechitar, Venezia 1963; B.L. Zekiyan, “Daniel Varujan. Dall’epos al sogno”, In forma di Parole, n.s. 1, 3, luglio-settembre 1990, pp. 127—181; K. Beledian, “Un paganisme poétique. Essai sur le fondement de la poésie chez Daniel Varoujan”, in Annali di Ca’ Foscari, serie orientale 20, XXVIII, 3, 1989, pp. 83-95.

Aia

Mi siedo sull’aia sognando
all’ombra del mio asino
che legato vicino a me sfrega
la sua dolce mascella sulla mia spalla.

Sulla pianura, calma, dilaga
l’onda bianca del sole
i covoni vi nuotano, e la tartaruga
la cerca per riscaldarsi.

L’ala del vento, carica di tiepidi profumi,
si muove appena, pigramente.
L’ombra della vacca sulla luce gloriosa
è un largo rattoppo nero.

Trasportate le sue cose, il contadino
ha fondato là un nuovo villaggio…
lontano giace sulla soglia muschiosa
e fa la guarda solitario il mastino.

Nell’aia il covone stuccato dal sole
sembra una casetta dorata.
L’ombra fresca dell’albero dal folto fogliamo diventa
il velo di una sposa novella.

Ed io seduto all’ombra del mio asino
canto i valorosi della terra
che appena appesa la falce al muro
addestrano il toro all’aratro.

Canto il pastore che spiana l’aia
col rullo di pietra attaccato alle spalle,
la camicia inondata di sudore
aperta sul petto.

Canto le spose che, con le dita colorate di henné,
setacciano l’orzo vigorosamente;
si disperdono dai fori del loro setaccio,
diresti, gocce di perle.

Canto i contadini che in cima ai carri
eretti come dèi
col forcone ferocemente distruggono
l’enorme catasta dei covoni.

La trebbiatrice canto, che naviga intorno al raccolto
come su un lago color di fuoco,
e anche il grano turbinante che già
nuota in mezzo alla paglia.

Oh, quanto è dolce confondersi con l’essere
in questo lavoro sacro;
dai sandali fino ai capelli immergersi
nelle polveri gialle dorate.

In cerca della scintilla del forno, del pane del campo
essere il Pan delle aia,
restituire al cuore dei mulini
i loro canti infiniti.
Raccolgo la messe…

Raccolgo la messe con la falce,
– La luna è la mia amata –
cammino di solco in solco.
– La mia amata è sposa di un altro -.

A testa nuda, scalzo,
– I venti sono dolci –
io vago fra i campi.
– I suoi capelli sono oceani -.

Grano e papaveri, piangendo di nostalgia,
– La pernice si lamenta –
ho legato con un nastro.
– Le sue mani sono tinte di henné -.

Dal cielo, sulle spighe,
– La stella filante è passata –
gocciolano le stelle l’olio consacrato.
– Il suo viso si è illuminato -.

Quanti covoni bagnati di rugiada,
– Il roseto è umido –
ho legato come giocando.
– Il suo seno è scoperto -.

Nel mio campo sono rimaste le stoppie,
– La luna se ne va –
con i covoni ho fatto una catasta.
– Il mio cuore è di fuoco -.

La mia falce ha colpito una pietra:
– La mia amata ha un amante –
dalla pietra è schizzata la quaglia.
– Il mio fegato sanguina –
Il giogo

I miei buoi sono biondi, hanno le fronti di luce
che ho adornato con un amuleto blu.
Sono ebbri dell’aria primaverile del mattino –
guardano pacifici la campagna tranquilla.

Durante l’inverno li ho nutriti di fieno –
sembrano i grassi idoli del tempio.
La loro coda pelosa e pettinata
scivola sui fianchi come un serpente.

Amo il loro dorso dalle mille pieghe,
le loro narici umide, le grandi pupille
dove si riconosce il sogno immutabile della campagna.

Amo di loro i corpi dondolanti, e il possente muggito
dagli orizzonti – quando avanzano senza fermarsi
con le corna immerse nell’Alba.
Papaveri

Cogli, sorella, questi papaveri nel recinto –
sanguinanti come cuori innamorati.
Nelle loro coppe di cristallo
berremo l’onda del sole.

Tanto divampano di fiamme
che il loro incendio brucia i campi sterminati.
Nelle loro coppe di fuoco
berremo le scintille delle stelle.

Cogli, sorella, come la quaglia nascosta
tra i grani che dolcemente vezzeggiano.
Nelle loro coppe scarlatte
berremo il sangue dei solchi.

Chini sui nidi delle allodole
fluttuano come grappoli di raggi rossi.
Nelle loro coppe rubino
berremo la promessa della Primavera.

Cogli, sorella, non i papaveri, ma la fiamma;
avvogli del loro incendio il tuo grembiule verginale.
Nelle loro coppe delicate
berremo i fuochi di giugno.

Fiori sbocciati come le tue tenere labbra,
conversano con il grano vibrante.
Nelle loro coppe purpuree
berremo il mistero delle spighe.

Coglili, sorella, perché di essi c’incoroneremo
per la gioiosa festa di domani, al villaggio.
E in queste coppe, danzando,
berremo il vino dell’amore.
Ritorno

Questa sera veniamo da voi, cantando un canto,
per il sentiero della luna,
o villaggi, villaggi;
nei vostri cortili
lasciate che ogni mastino si svegli,
e che le fonti di nuovo
nei secchi irrompano a ridere –
Per le vostre feste dai campi, vagliando
vi abbiamo portato con canti la rosa.

Questa sera veniamo da voi, cantando l’amore,
per il sentiero della montagna,
o capanne, capanne;
di fronte alle corna del bue
lasciate che infine si aprano le vostre porte,
che il forno fumi, che si incoronino
di un fumo azzurro i tetti –
Ecco a voi le spose con i nuovi germogli
hanno portato il latte con le brocche.

Questa sera veniamo da voi, cantando la speranza,
per il sentiero del campo,
o fienili, fienili;
tra le vostre buie pareti
lasciate che risplenda il nuovo sole,
sui tetti verdeggianti
lasciate che la luna setacci la farina –
Ecco vi abbiamo portato il fieno raccolto in covoni
la paglia con il dolce timo.

Questa sera veniamo da voi, cantando il pane,
per il sentiero dell’aia,
o granai, granai;
nell’oscurità del vostro seno immenso
lasciate che sorga il raggio della gioia;
la ragnatela sopra di voi
lasciate che sia come un velo d’argento;
poiché carri, file di carri vi hanno portato
il grano in mille sacchi.
I fienili

Fienile di trifoglio, colmo di odori
di incenso, di hashish;
quando apro la tua porta
i tori dall’ampia fronte
muggiscono, infuriati,
spezzando il collare di cuoio.

Fienile di piselli, colmo di mille fiori
dall’odore di montagna;
quando porto i tuoi covoni nelle mangiatoie
cesta dopo cesta
il mio petto e il mio grembiule s’impregnano delle tue spezie
per giorni e giorni.

Fienile di paglia, colmo di sole
che guarda sul focolare;
dove distesa sul tuo tenero ammasso
partorisce la gatta,
tu che rendi d’argento il muso dei miei agnelli,
sii benedetto.
La semina

E’ il seminatore. – Si erge possente
tra i raggi dorati del tramonto.
I campi della patria ai suoi passi
estendono scarna la propria nudità.

Il suo grembiule è pieno del grano
colto dalle stelle. Le spighe di un anno, assetate,
attendono il suo palmo gigante,
che spunta sui campi come l’aurora.

Semina, contadino – in nome del pane della tua casa,
non conosca limiti il tuo braccio;
questi grani che spargi, si verseranno
domani sulle teste dei tuoi nipoti.

Semina, contadino – in nome del misero affamato
non esca dimezzato il tuo palmo dal grembiule;
un povero oggi nella lampada del tempio
versò il suo ultimo olio per il raccolto di domani.

Semina, contadino – in nome dell’ostia del Signore
germi di luce straripino dalle tue dita;
in ciascuna delle spighe bianche di latte
maturerà domani una parte del corpo di Gesù.

Semina, semina – sia pure lontano dai confini,
come le stelle, come le onde, semina.
Che importa se i passeri devastano i tuoi chicchi –
Dio al loro posto seminerà delle perle.

Colma i solchi, fendi le fertili pianure,
luci d’oro zampillano dal grembo della terra.
Ecco, il giorno imbruna – e l’ombra del tuo braccio
si allunga sugli orizzonti di stelle.

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