FRANCO BATTIATO

di Massimiliano Venturini
Franco Battiato foto

Franco Battiato ci ha lasciato lo scorso 18 maggio. Il maestro che ha saputo decifrare il lascito sapienzia della storia dell’uomo in formule musicali semplici e immediate ha lasciato l’ombra della luce, dirigendosi verso quei mondi lontanissimi che nella sua carriera musicale, il suo lungo viaggio spirituale, ha cercato di raggiungere.

Religioso nel senso più alto del termine, aperto al senso dell’Altro senza per questo rinunciare al mondo, Franco Battiato ha saputo criticare con ironia e acume l’industria musicale, la civiltà occidentale, la prosopopea del mondo contemporaneo costruendo un personalissimo percorso che lo ha guidato verso il sufismo, poi verso la mistica di Gurdjeff, per approdare infine ad una visione del tutto personale della verità.

Quante volte il mitico “Cuccuruccu! Paloma!” (un finto nonsense, tratto da una poesia futurista) si è alzato durante i concerti, quanto è diventato familiare citare “lo shivaismo tantrico/che fu prealessandrino” dagli anni Ottanta in poi? Fare una cronaca della vita del maestro di Milo riempirebbe pagine e pagine di aneddoti. Ma in fondo resterebbe sospeso un quesito, l’unico che dia un senso all’esistenza: avrà poi trovato ciò che cercava?

Forse più che un gioco sarebbe immaginare l’eremita Juri Camisasca, compagno di Battiato fin dagli anni Settanta e interprete dell’opera del 1987 “Genesi” mentre porge l’ultimo saluto all’amico. Camisasca, sodale anche di Alice, ha lasciato il mondo della musica già da diversi anni per proseguire la sua ricerca spirituale in solitudine.

Sembra di vederlo, Camisasca, in silenzio sulle pendici dell’Etna, a rileggere Sant’Agostino e ripensare ai quadri di Battiato, la cui tecnica pittorica ricordava un po’ le icone bizantine, un po’ i ritratti mediorientali. E in fondo a Franco questo mondo, l’Occidente (ma solo l’occidente poi?) stava proprio stretto. La “trilogia della fuga” dei primi anni Ottanta (Mondi lontanissimi, L’Arca di Noè, L’era del cinghiale bianco) ha dipinto per sempre un’estetica, un citazionismo liberato e giocoso che anticipava il postmoderno, ridendo e giocando col mondo.

Battiato è stato un esempio di cultura nel senso più completo del termine, ovvero dell’uomo alla ricerca del proprio intimo senso con il mondo e si interroga, trascende la lezione dei maestri e se ne riappropria per trovare la sua voce, unica e inconfondibile.

“Il senso del trascendente in lui è stato da sempre una costante attraverso la quale ha dato possibilità a tanti di alzare gli occhi verso il cielo – ha detto dell’amico Pierangelo Buttafuoco – La sua opera è stata molto più efficace e forte di mille prediche. Ha avuto la capacità di saper decifrare il lascito sapientale della storia dell’uomo in formule musicali semplici e immediate. In un certo senso ha avuto la funzione che nella tradizione dell’arte medioevale avevano le icone: aprire il cielo verso la terra”.

Di lui il giudizio del cardinale Spadaro su Battiato “filosofo in musica” appare quanto mai calzante. Innovatore anomalo, con i suoi album degli anni Ottanta ha rovesciato la musica italiana come un calzino, proponendo un pop consapevole e complesso (nel senso di rimandare a diversi elementi costitutivi) eppure capace di levità e disincanto. Ora con la stessa leggerezza lo possiamo immaginare nel Mistero.

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