MORAVIA, GLI INDIFFERENTI

di Francesca Sallusti

Alberto Moravia

Un’impresa mirabile quella di Moravia, che con la sua scrittura sfrontata e impudica, ci dona una letteratura intima e direi ancora intima: lo scrittore si è fatto letteratura, senza essere intellettuale, senza essere intermediario tra la vita e la scrittura, tra la vita e la documentazione di essa.

Gli indifferenti dunque è un romanzo ‘umano’, in cui le vicende si raccontano da sé, genuflesse sui propri accadimenti; indipendenti e sensuali.

Il romanzo pone ‘l’indifferenza’ come margine di tutte le cose, di tutti i sentimenti, di tutte le intenzioni, è la norma, è la consuetudine, fino a diventare addirittura una ‘grazia’, una grazia al fianco di ognuno, una grazia cosciente, espressiva, caparbia, dolente e cinica. Michele ne è l’esempio lampante, più energico, perchè mette in moto, come un perpetuo e repentino rapimento, la questione; è in lui che si localizza spietatamente, è in lui che si manifesta mirabilmente. Dunque Michele colloquia incessantemente con l’indifferenza, la raggira o cerca di farlo come se questa fosse un’incapace prostituta.

Tuttavia questa depressione, questo ‘sentimento inconsistente e romantico’ è perenne, è vigile in tutti ed è la crosta stessa del romanzo.

Un sentimento inconsistente e romantico’, come già detto sopra, perché questa indifferenza che Moravia ci propone, è fragile, mite e lieve, proprio come Carla; tutta l’indifferenza che vive in questo romanzo porta il nome di Carla, nella sua fisionomia, nelle sue movenze e ha la voce di Michele.

Abbiamo a che fare con un sentimento giovane dunque (di Carla e di Michele), che porge un riscatto al lettore, che ancora respira fulgidamente e che si incontra con l’indifferenza di Maria Grazia e Leo, già reclusa, già in esilio elegantemente, rendendola quindi ancora un po’ viva, attiva: due indifferenze che si scrutano, l’una fremente e l’altra esiliata; credo sia questo che si rileva e credo sia questo che emerge dall’oscurità: il motore dell’indifferenza e le sue diverse intensità e come le intensità si rivelano in epoche umane diverse. Nell’acerbità si fa cruccio, lamento inutile e incessante, pregno di terrore e di sentimentalismo e nella maturità si fa piega del pensiero, percosso ma immutabile, senza più memoria.

Questa indifferenza, che sia giovane o vecchia, fulgida o dimessa, si insinua come un marchio nelle loro fronti quando mangiano nella stessa tavola, insudiciandosi degli stessi odori, ascoltando, dentro le stesse ombre, i lamenti dei commensali, mandando giù lo stesso cibo, la stessa roba di tutti i giorni: è in questo che si instaura l’indifferenza, come un raffinato ricamo (che porta la stessa sostanza organica), sui loro volti.

La stessa indifferenza, questa sontuosa disattenzione, si ripercuote anche negli arredi, nelle mura, nella “luce bianca” in descrizioni del genere “Carla guardava in terra pensando vagamente che quel passaggio quotidiano dovesse aver consumato la trama del vecchio tappeto che nascondeva il pavimento; e anche gli specchi ovali appesi alle pareti dovevano serbare la traccia delle loro facce e delle loro persone..”. Tutto ci porta nel tempo dell’indifferenza, nel suo secolo abbondante di tracce, di parvenze, di sembianze di vita.

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