Nel 1899, in una città portuale del nord Italia, girava una storia che somigliava ad uno di quei racconti che finiscono addentati facilmente come soffice pane caldo tra le fauci di quei ragazzi che si affacciano forti ma incoscienti alla vita adulta. La protagonista di questa storia è oggi come allora sulla bocca degli uomini, una macchia che perde sangue pregna di un sapore dolciastro. Si chiamava Maria Ludovisi, era un monumento alla femminilità, una regina senza voce, povera e senza ali, piena in ogni suo angolo di una bellezza sconfinata. Dapprima diventò silenziosa per scelta. In seguito, contando su una di quelle volontà ferree che possono esser sorrette solo dalla scompostezza di un dolore inesauribile, passò dal silenzio al mutismo più totale. Sembrava che ogni giorno le parole le morissero nella bocca strozzate da una apatia irreversibile. Che il suo mutismo fosse il risultato di un trauma o il frutto di una scelta perversa non era dato sapere.
Il regno dove esercitava cotanto potere, più o meno debitamente conferitogli dalla sua struggente bellezza, non era immenso ma era Genova. A voler ristringere il campo, il teatro delle sue gesta era il porto di Genova. E per delimitare i confini del regno, il palcoscenico era la locanda del padre di Maria. Qui Maria si spezzava la schiena. Era il suo castello non tanto dorato. Maria si infilava nei viaggi erotici della mente dei marinai ma veniva anche apprezzata da alcune donne di passaggio nella locanda grazie alla sua dolcezza ed alle sue capacità culinarie. Da quando la madre era morta, il padre di Maria si era incupito e viveva per le faccende della locanda. Attorno a lei un insieme di gesti rituali accompagnavano la vita di questa antica città portuale giorno dopo giorno. Maria per molti era una istituzione benevola, avvolta da un’aurea magica faceva da sfondo nel quadro della vita del porto. Una quotidianità difficile fatta di strade che puzzavano di pesce e di urla di gioia strozzate dal vento. Sfilavano i figli disabili di consanguinei innamorati senza la speranza di una cura e i mercenari disarmati in perenne combutta o conflitto con gendarmi di ruolo fedeli solo all’infedeltà ed alla corruzione del sistema in auge. Maria nuotava nei loro sogni e viveva nei ricordi di una donna in Sicilia che, tra le mura domestiche e nei pomeriggi sulle panchine con le comari del paese, la citava come esempio di virtù. Laggiù, nella lontana isola del sole, addirittura durante il consumarsi delle ore che precedevano il suo matrimonio, in uno stato quasi ipnotico, questa donna finì per esclamare da sola mentre si rimirava allo specchio: “Il porto di Genova, che volti così dolci. Ricordo quella ragazza che aveva i capelli di una leonessa. Chissà se ancora oggi è dietro al bancone a preparare quelle deliziose colazioni al sacco”. Maria era solita regalare il suo silenzio a titolo gratuito come luogo di riposo dell’anima per quei viaggiatori stanchi delle maree. Questi si trascinavano sbronzi a terra ma il loro corpo restava sempre quello di un cavallo selvaggio mai domato. Maria ed il padre interagivano schierati attorno ad un bancone dove servivano soldati che militavano per bandiere diverse uniti dalla paura del domani. Lui le rimproverava atteggiamenti estremamente introversi. Non sapeva nemmeno lui perché quelle ombre sul viso della giovane erano paradossalmente una calamità per gli sguardi di quegli uomini che quotidianamente la puntavano. Un linguaggio poetico ed onirico era il timbro di fabbrica dei pensieri di Maria e delle dissertazioni notturne di chi la incontrava a fine turno. Davanti alla locanda, lungo la scia dell’orizzonte sconosciuto, le navi partivano una dietro l’altra verso il mare aperto. Sul pontile si alternavano come in una passerella uomini rozzi e pesci ballerini. Oscillava vezzoso il pesce palla. Un altro giro sull’otto volante, un’altra giravolta, ed il ballo si trasformerà in un vento a porte chiuse. Cento e più volte l’onda travolgerà con i suoi gelati, incomprensibili, copiosi flussi marini, le imbarcazioni più deboli. Maria accompagnava con un disegno delle mani l’allegra compagnia lontano dalla sua prigione. Le navi volavano sopra gli abissi marini con le spalle rivolte alla piccola Locanda Ludovisi. Una bottiglietta di sonnifero pesante ed una confezione di veleno per topi faranno forse da companatico per alcune sue ossessioni. Le due sostanze pericolose potevano essere per Maria o troppo vicine o troppo lontane a secondo della luce lunare che filtrava dentro.
Con prepotente avvenenza fece la sua comparsa un Capitano di Vascello. Un tipo lungo, secco, bello, ed in grado di leggere i pensieri di Maria. Esordì dicendole, certo di colpire una ferita che pareva già perdere sangue:” Uno strofinaccio non cancellerà i suoi sogni”. In quell’istante nel cuore di Maria si rendevano palesi nei confronti del padre sentimenti e stati d’animo controversi che avevano a che fare con il disprezzo e la compassione. I suoi pensieri sembravano sollevarsi in cielo con le mani giunte in preghiera.
“Padre dal cuore tenero, verrà presto il giorno in cui il cielo sarà tanto vicino che lo si potrà toccare con un dito, verrà la tua scomparsa insieme alla mia libertà. Per voi, probabili nuovi inquilini del regno dei senza respiro, provo un sentimento così vile “.
Dal Babbo lo sguardo limpido di Maria muoveva verso gli utensili della cucina, fedeli compagni di ogni dì. Ma perché la fuga? Ancora quel quadro di una donna nuda che esce da una regale tinozza da bagno a renderla inquieta. Il capitano gonfiò il petto per darsi un tono. Prometteva e scommetteva sul futuro. “Sarà una liberazione dolorosa ma efficace. Mantenga il suo innato contegno e nessuno sospetterà di niente”. Maria soppesava vantaggi e svantaggi e come una macchina che incominciava a mal funzionare, sussurrò soavemente:
“I capelli da leonessa nei ricordi di una donna siciliana non sono niente? E la ben nota ospitalità della locanda? Tutti i marinai con il cuore perso nei miei silenzi?”. Il Babbo si precipitò verso l’estremità opposta del bancone dove Maria Ludovisi era faccia a faccia con il suo nuovo eroe. “Vi prego Signor Capitano ditemi se la mia bimba ha parlato. Sapete, ha perso la voglia di parlare da quando i gabbiani hanno smesso di darle la buonanotte”.
Il Capitano ribatté rapido e deciso:” Ultimamente i gabbiani prediligono il mare aperto. Chi può dargli torto. Sono saggi ed hanno visitato tante nazioni. Si dice che ne abbiano viste più del nostro benamato Colombo”.
Intanto, nei dintorni di una delle provincie del Regno di Maria Ludovisi, proprio sul ciglio della strada, un malore improvviso assaliva una di quelle signore truccate con la mano pesante. Di sovente le si vede passeggiare avanti ed indietro in cerca di compagnia, e di tanto in tanto può capitare che siano soggette ad i sintomi di un mancamento improvviso o che siano vittime di uno svenimento causato da una dolce ma non desiderata attesa. Proprio allora, in questo ed in altri regni, come d’incanto, tutti gli abitanti del mondo diventano per loro amici sinceri e protettori disinteressati. Babbo Ludovisi prestò prima soccorso con le mani tese verso il corpo ansimante. Maria fissava il Babbo, ora paramedico di fortuna con un passato da genitore severo ed un presente da vedevo inconsolabile. Ancora una volta Maria provava pena e troppo amore per quest’uomo. Il Capitano, disturbato da un sudore d’origine malarica, si interfacciò quasi eccitato con Maria: “A tarda notte mi raggiungerà a bordo della Spring Dreamer. Troverò un angolo poco illuminato ma ricco di calore. Si nasconderà finché l’ancora sparirà negli abissi marini. Dopo sarà tutto facile. La scambieranno per una delle mogli dei marinai. Queste si possono definire donne ordinarie solo se si fa uso del gergo comune. Ma se così per gioco si iniziasse a dar voce alle impressioni degli uomini di Mondo come il sottoscritto, non ci sarebbero aggettivi adatti a descrivere quel fascino paralizzante che le abita. Non c’è mistero alcuno nei loro atteggiamenti quotidiani. È a mio parere il dono della semplicità a garantire il presupposto essenziale per la serenità della notte che si va consumando e del giorno che verrà. Anche loro prediligono il silenzio alle frasi sdolcinate copiate ai poeti del secolo passato. Quando navigo in mezzo alle intemperie della Manica, che ci sia burrasca o tempesta, arcobaleno o pirati in vista, il quadro che le ritrae mi invade dentro. Osservo ed invidio i miei marinai. Questi hanno la testa trenta metri sotto il livello del mare ma quando è ora di andare sottocoperta si levano in cielo le loro preghiere. E.…Maria! Maria! Ogni Padre Nostro è per la loro innamorata“.
Il capitano mormorava senza esser udito con fare da macchiettista: “Un Gloria al Padre dedicato alla mia gatta comprensibilmente succube del mio volere, presto muta e schiava solo per assecondare il mio piacere”. Maria lo fermò e concluse con gli occhi pieni di luce: “Aspetterò la notte lottando con l’angioletto che sovente mi vuol dar consigli”.
In quel mentre una flotta di ricordi insieme a un blocco marmoreo di veloci e contorti pensieri si posarono nella mente malata del Capitano, in ordine sparso… (Questa volta l’hai fatta grossa. Invogli le ragazze senza bussola a fuggire. Vergogna Capitano! America, India, fortune inaspettate e malattie preventivate ma mai accettate. Cavalcate sessuali con una mezza sincope sfiorata. Genova. Inghilterra. Quei due marinai che hai buttato in mare con i piedi legati. Incontri a lume di candela. Le poche lacrime che hai versato sulle sponde della Grecia.
I nuovi pirati della Malaysia. Il risvolto bianco dell’Oceano per sognare ancora. Un uomo con questo curriculum non ha la stoffa dell’eroe).
Maria fu sopraffatta dall’entusiasmo. Il capitano se ne accorse ed esclamò “Per favore accordatemi la vostra fiducia e smentirò quel vostro angioletto fastidioso e ficcanaso”.
TRIBUNALE MILITARE
Il Babbo sotto giuramento:
“Mi scusi Signor Giudice ma lei ora interroga un fantasma. Senza Maria la mia vita è finita. Il mio sangue non ha interrotto il suo inutile ed inarrestabile fluire ma è solo accademia, solo un ignobile farsa del destino. Quale importanza potranno mai avere le mie urla addolorate, le mie parole ubriache di questa tristezza senza confini?”.
Il Giudice: “La vostra testimonianza potrebbe restituire Maria al vecchio porto di Genova.”
Il pubblico che assiste vuole giustizia.
La testa del capitano in piazza.
Una levatrice sottovoce: “Maria era stanca di strozzare i figli dei suoi sogni. Sarebbe fuggita comunque, il Capitano non ha colpe.”
Il Giudice infastidito per l’incessante brusio:” Silenzio in aula! Signore del porto dovete smetterla di far congetture. Deciderò sulla libertà dell’imputato solo dopo aver ascoltato quel che hanno da dire i personaggi del Presepe vivente. “
Un Passo Indietro.
Maria tornò la musa di sempre. Il Babbo salutava la passeggiatrice. Una bella donna, prostituta per scelta. Il Capitano, per confondere l’apprensivo genitore, si fingeva un bagnante che quasi affogava in una tazzina di caffè senza zucchero. Un bambino, cupo in viso, spalancando la porta della locanda, con voce ferma e battito cardiaco prossimo ad una veloce cavalcata, disse:
“Signor Ludovisi, Signora Maria, il Presepe vivente è rientrato dal giro. Ero molto preoccupato, li volevo rivedere vivere davanti a me, ora sono carne ed ossa al molo numero 13”.
Potevi dire già che non era più un bambino. Ma nemmeno un ragazzo. Era un uomo in miniatura che sembrava sempre tirare un lungo sospiro di sollievo. Veniva malmenato dalla famiglia per le sue fughe da casa ma era ancora vivo e voleva vivere a lungo.
Luigino, spinto forse dal rigido batter di ciglia del Capitano di vascello, controvoglia, ciondolante, guadagnò l’uscita. Una banda di molliche dispettose si stiracchiava componendo così un rumore bizzarro, un tetro ed inconsueto presagio acustico per un insospettabile fuga. Il Capitano strizzò l’occhio alla silenziosa eroina del porto di Genova, per poi confondersi con i braccianti del molo numero 5. Per Maria era ora null’altro che un puntino nero vicino al mare.
Il Babbo guardava la tavola che avrebbe dovuto da lì a poco imbandire. Ricominciava con il consueto appello della sera: “Vino, pane. Maria, per cortesia taglia qualche fetta di pane. Presine, tovaglioli in pizzo e.…ah sì, il pasticcio tonno e patate. La tavola, Maria, la tavola!!”. Solo di rado, questi ripetitivi e rassicuranti ritratti di lavoro a conduzione famigliare, mitigavano lo sconforto e l’irrequieta ricerca di un altrove di quelle monelle con il corpo nelle abitazioni lungo il porto ma con la mente verso l’orizzonte dietro al mare. In quel mentre, proprio dove gli scippatori erano soliti spartirsi il bottino, con i segni del peccato e dell’alcool sotto alle scarpe, le mani del capitano si prendevano cura delle rotondità di una giovane di facili costumi. Un angelo, che in parte vegliava sulle condotte meschine del Capitano, dimostrò la sua abilità retorica fischiettandogli alcune parole nel cervello: “Impostore e lingua lunga pagherai le tue malefatte! Hai ingannato, tradito, picchiato, eppure i maremoti hanno continuato ad allagare i porti, i lebbrosi hanno raccontato le loro storie tristi, la nebbia è stata uccisa di nuovo perché rivelatrice di misteri e demoniache opere terrene.”
Il Capitano di Vascello, con i piedi nella linea territoriale di influenza dell’ombra delle tenebre, armonizzava le manovre di seduzione. La giovane, spaventata dal fuoco della passione, indietreggiò con il busto. Farneticò parole d’estasi, per poi cedere all’impeto di un amplesso quasi d’argilla.
Altrove, in quel momento, Maria piegava in una valigia un vestito da sposa tutto roso dai tarli …
“Il Capitano, ne sono certa, saprà prendersi cura dei particolari e del superfluo. Sono una debuttante al ballo dell’amore, maldestra negli affetti, ma egli saprà mantenere per noi la rotta giusta. Se avrò difficoltà ad assoggettarmi alla legge del mare grosso, al suo flusso ed al suo riflusso, il mio valoroso farà tornare il sereno. Quando la malinconia sarà caparbia con la sua insistenza ed un’aguzza punta dentro le cervella, il paladino delle immensità marine mi prenderà come moglie così finalmente il verbo rivoluzionario dei predatori non sarà altro che zucchero”.
Mentre Maria almanaccava le sue utopistiche previsioni, gli uomini del Presepe vivente prendevano posto al gelo davanti al molo numero 13.
C’era San Giuseppe che batteva i denti perché nuovo del mestiere. Il bue, imponente e nudo, provocava l’asinello, che umile fino all’inconcepibile, finì per disinteressarsi di quelle bravate da animale greve. In quell’arca di Noè vicino alla terra, laddove le stelle cadenti combattono con certe sciagure dell’oceano da millenni collocate sotto i loro piedi, ci sarà sempre spazio per un Presepe vivente ed un bambino che lo guarda rapito dal suo incanto.
A Genova il burattino animato, rapito e conquistato da cotanto spettacolo, si chiamava Luigino.
Una tartaruga scioccamente uscì fuori dal guscio. Maria ne imitò le gesta. Le due teste internamente colorate, ormai sazie di vivere nell’ombra, stavano uscendo allo scoperto. Una con il portamento e la flemma di un sultano, l’altra gonfia di follia. Gesù bambino, cuore del Presepe vivente, alzò le antenne perché attratto dai lunghi capelli di quella leonessa. Un giorno il piccolo commediante sarà un uomo tra gli uomini, avrà dei figli, smetterà di ridere, ebbro di una malsana lucidità confesserà al mondo intero la sua saggezza: “Le donne si fanno imbrogliare dai gradi appuntati sulle spalle proprio come i bambini si arrendono alla magia di una grotta”.
La Spring Dream catturò l’attenzione di Luigino. Ai piedi della nave vedeva Maria stringere forte un meraviglioso vestito da sposa. Quasi incerto, vittima di un sogno o solo spettatore di una terribile realtà, pensava: “Oggi non ho tempo per le manie della Ludovisi.”
L ‘asinello, altezzoso nei modi, aveva riguadagnato il rispetto del bue. Quest’ultimo appariva pentito, ignorante e colpevolmente eccitato. Una bambina passeggiava davanti al Presepe vivente accompagnata per mano dal padre e dall’amante della madre che si scambiavano sorrisi e parole tutt’altro che bellicose in un’atmosfera di complicità passiva talmente palese da renderli uomini completi.
Maria si infilò di soppiatto nella pancia dello Spring Dream sorretta dal Capitano che prima la tirava su per un braccio, poi le guardava impudico le forme sotto al vestito. Maria voleva esser baciata, voleva il vino, i gioielli, un letto di piume perennemente in volo, un tramonto a fumare oppio per spazzar via il torpore che veniva da quelle luride congetture delle vecchie del porto.
“I miei sogni sono diventati realtà ma quanti dubbi, quante speranze. Tutto quello che il destino riserverà ai miei giorni, passerà tra i polpastrelli dell’uomo che ora mi sta legando con un abbraccio.
Sento la malizia nelle inclinazioni della mia bocca, il tremore delle mie mani in cerca delle sue. Mi farò portare via la testa per attimi in cui inseguirò i petali di fiori rapiti dal vento, sragionerò e mi troveranno prona a leccare le ferite delle sirene per non sentirmi mai più debole e sconfitta.”
Il Capitano spinse Maria verso la stiva della nave. E la poesia velocemente si tramutò in violenza, la favola diventò tragedia, l’eroe prese le sembianze di un mostro, gli incubi presero forma ed acquistarono sostanza. L’uomo in divisa, paonazzo in volto, un fascio di nervi, schiacciava la donna della locanda come una bestiolina impaurita.
“Aiuto! Liberatemi! Vi Prego! Aiuto!”.
Il mare, fermo come il cielo, spalleggiava la furia del Capitano, che vittima di una scomposta eccitazione, si adoperava per la sua ostinata missione di cacciatore d’anime. E poi uno schiaffo, un bacio, una carezza, un pugno in viso, una goccia di sangue, un uomo violento, un assassino!
“Ti scongiuro non uccidermi. Abbi pietà di me”.
Il suono pacifico che fa il mare sembrava un segnale di via, una forma di assenso divino.
“Aiuto, sono sola”.
L’uomo era debole, il folle omicida più forte che mai. Partì il primo colpo di pistola che non uccideva, avvertiva. Il folle omicida tornava ad essere un coniglio, l’uomo un freddo calcolatore.
Il Capitano sparò il secondo colpo che non avvertiva, uccideva. Un tonfo.
Maria era stesa sul pavimento assieme ai suoi desideri colpiti a morte, ai suoi sogni infranti, alle sue speranze per sempre naufragate.
La luna continuava ad illuminare in volto i personaggi del Presepe vivente. Un marinaio mollò gli ormeggi e tutto intorno fu un terribile udir di pianti di mostri in terra ferma. Mentre Luigino lavava i piedi al bambinello Gesù, il corpo di Maria diventava cenere, bruciava tra i carboni ardenti, polvere che era vita, cenere che volava via. Il Capitano s’interrogò a lungo sul significato di quel vestito bianco latte.
“Forse in cuor suo si aspettava che la prendessi in sposa. Maria…Maria…eri già arrivata lassù, in cima alla montagna delle illusioni. Quanta fretta!“.
E l’eroe pianse, pianse lacrime di cenere. Quando in lui tornò il calcolatore l’abito nuziale andò a far compagnia a Maria nel forno in mezzo al carbone infuocato che alimentava la fuga dell’imbarcazione. L’unione dei due elementi terreni fu perfetta. Finalmente Maria Ludovisi riuscì ad essere moglie e fuoco.
Il Giorno della Verità al Tribunale Militare, San Giuseppe alla sbarra:
“Quella notte avevo perso la vista perché ferito, dubbioso ed esitante. Una dolce guerra era appena finita. Il mio prezioso amore era appassito come le viole del giardino del Comune, ed io le continuavo a dire: Non ci lasceremo mai. Più tardi, mentre debuttavo nella parte del Padre di tutti i padri, ripensai a quelle carezze svogliate, a quel bacio mai dato, a quel figlio che non poteva o non voleva arrivare.”
“Le controversie che la riguardano non ci interessano. Quello che vogliamo sapere è se quella notte lei s’accorse della presenza della Signorina Ludovisi.
Mi risponda unicamente con un sì o con un no!“.
“No.”
“Chiamo a deporre il giovane attore che la notte in questione vestiva i panni di Gesù Bambino.”
“Ho visto solo un fulmine di cenere con i capelli da leonessa. Nient’altro.”
È la volta del Grande Accusato.
“Non posso farmi carico di questo crimine assurdo. La mia febbre di conquista è bagnata, è mare. Mai sono venuto a patti con una donna, non mi sono adoperato per farla fuggire. Se il fantasma di questa donna potesse aver voce direbbe: Per il Capitano non chiedo la forca, nemmeno la mano dolce della giustizia, perché egli è per me solo uno sconosciuto, al massimo un figurante.
Il Capitano non sapeva delle mie bugie, della mia voglia d’esser più donna e meno figlia.
Dovete cercare altrove l’uomo a cui mille volte ho detto basta, l’uomo a cui avrei voluto dire addio, l’uomo che mi ha rubato l’anima per poi costringermi alla fuga”.
Il popolino, mutilato nell’ardore e nel coraggio, rassegnato al perdono, smise di inneggiare alla vendetta.
“Dichiarò l’imputato innocente. Non ho riscontrato elementi sufficienti per formulare una sola ipotesi, un solo dubbio in merito alla sua colpevolezza.”
Il Babbo in disparte
“Signor giudice, concordo decisamente con la vostra sentenza. Voi conoscete le leggi del nostro Paese, voi rendete gli uomini liberi perché volete che sia la vita a colpirli. Il tiro sbilenco della tragedia non risparmierà nessuno, infliggerà al nostro Capitano il suo colpo innocuo, il suo colpo letale.”
FINE
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