IL TEMPO DI CARAVAGGIO, MUSEI CAPITOLINI

Collezione Roberto Longhi

di Francesca Sallusti

Ci accoglie Lorenzo Lotto con i due santi Pietro e Domenicano, racchiusi in nicchie, sgraziate dalle vesti che straripano come pozzanghere ghiacciate. Nei panneggi bianchi e luminosi, quasi argentei, si instaura una sintesi che preannuncia il surrealismo nel timbro denso e plumbeo; atemporale; la luminosità costante toglie la plasticità.

Il “Ragazzo morso da un ramarro”, pastoso e conciso, quasi essiccato sulla tela nel momento più vivo, ci presenta un realismo truce ed estatico nello stesso momento. Di incantevole delizia ed equilibrio il gioco dei monocromi delle vesti a creare una linea di confine e di sacralità, un bivio netto e spesso nel centro del torace e, di nuovo dei monocromi del viso che, attraverso un’illuminazione a destra e un’oscurità a sinistra , continuano l’armonioso discorso dei panneggi; una dialettica pregiata e plastica tra gli stracci e il volto. La spalla, che contiene il dolore, il peccato e la sorpresa mistica dell’atto, pare destabilizzare, con la sua plasticità, le esili membra. La figura umana diventa una natura morta, un corredo del tempo; questione sottolineata dall’espressione del viso che imita il dolore umano. Nella prima sala è presente un disegno a carboncino del ragazzo morso del Caravaggio, disegnato dal Longhi; tentativo che dimostra la consapevolezza e l’intimità che il Longhi aveva col lavoro del Caravaggio da riprodurne addirittura un’opera a sé, munita di grazia e cuore.

Nel “Sacramento di Mosè” del Saraceni, la vicenda dei personaggi è trainata delicatamente verso il margine della tela, quasi traghettate con una soave forza e, i personaggi si adattano a questo movimento, che sosta anche nei volti e nei movimenti, come un approdo dopo una migrazione; prendono posto su questa nuova terra lievemente e con una freschezza che rincuora lo spettatore. Il rigore scenico delle quattro figure in piedi, che aprono il palcoscenico alla vicenda sottostante, ha un andamento ancora rinascimentale di costruzione, che viene dissacrato dalla figura tagliata in modo ardito dalla cornice; procedimento tutto barocco. L’albero, grande e dettagliato, è pastoso nel cielo e quasi bidimensionale rispetto al grande progetto delle figure umane se non fosse per il gruppo di personaggi ai suoi piedi che dà precise referenze prospettiche.

Nella veste del “Giuda Taddeo”di Jusepe de Ribera, una liquida stesura, un organismo a sé, un corpo misterioso, energico e totalizzante che contiene i colloqui della morte con la morte e, che contiene di nuovo il volto del Giuda che fuoriesce come un misero pezzo di carne e tuttavia emancipato, e pieno di identità e di pensiero. La mano, sembra appartenere più al panneggio che al Giuda; ne guida le intenzioni, ne articola le condizioni.

Matthias Stomer, pur ascoltando profondamente il linguaggio del Caravaggio, genera, nel suo “Annuncio della nascita di sansone a Manoach e alla moglie”, un angelo di grande impatto e nuovo nel volto per la sua tensione terrena, umana, perché la sorpresa dell’annuncio è stagliata sul suo volto, mentre le sue mani appartengono al cielo, manovrate da Dio e, il taglio netto della parete è un monologo e non un dialogo con i personaggi. Una lettura inedita del lavoro del Caravaggio, personale, nel quale si percepisce la novità e lo stravolgimento dell’azione di Caravaggio ma reinterpretato con coraggio e dinamismo personale.

Così anche Mattia Preti, con “Concerto a tre figure”, estende la lezione di Caravaggio attraverso una stesura impastata nei metalli e nel petrolio e nei lineamenti simili a insetti o a larve, facendo dunque del realismo, delle scenografie e dei temi del maestro, evoluzioni che tendono alla favola dell’orrore impreziosita da un romanticismo, soprattutto nel volto della figura centrale; pare quasi di vedere su quel viso, minuscole pietruzze che generano i tratti e, nel personaggio alla sua sinistra la sembianza della prospettiva, della misura e dell’armonia, in tutta la sua sintesi e in tutto il suo splendore, così netto e sobrio.

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