AUGUST STRINDBERG, L’ARRINGA DI UN PAZZO

di Francesca Sallusti

Emerge incessantemente in Strindberg la necessità di costruire nella donna e dentro la donna la dolce madonna; per un suo bisogno di denunciarla, dunque per una urgenza personale, o per illustrare, attraverso questo paradosso, la condizione femminile sul finire del diciannovesimo secolo? Per definire dunque tutta una società?

Attraverso questa arringa, Strindberg tenta anche una sproporzione di se stesso dentro al mondo volgare popolato di donne mascoliniste e uomini tagliati male dove dunque, emerge il poeta, lo scrittore dalla scrittura maschia tra una fila di uomini messi in fila e, a cui egli, il sommo, dà il suo passo, esortandoli alla guardia da donne lesbiche o puttane che, attraverso queste sembianze, prendono posto e spazio, rivendicando e purificando la loro voce nella protesta femminile.

Io credo che in questo lavoro di Strindberg si profila sopratutto il paradosso, si spiega la questione filosofica; la sua opera, scorrevole e “quotidiana”, contiene, in realtà, un documento antico di un’antica civiltà del cuore, in cui, attraverso il resoconto di un matrimonio, emergono quesiti di alta tensione intellettuale; e questo dato, questa speculazione rendono il romanzo affascinante e periglioso: presenta la sua inclinazione e impostazione filosofica.

Strindberg si chiede se è lui il mentitore di se stesso, si chiede di cosa sia fatto, e come mai una donna può apparire tanto bella in un momento e tanto brutta e vecchia un momento dopo; sono evidentemente i nostri stati d’animo che guidano le nostre percezioni, i nostri desideri che gestiscono il nostro modo di guardare, le nostre viltà e le nostre bassezze a concepire un amore; dunque niente di reale esiste; siamo uno schizzo dai contorni frivoli che incessantemente prende una forma diversa per generarsi in un’altra forma altrettanto frivola. Siamo la necessità di noi stessi in disarmonia con il tempo e con la sua generosità, dove l’amore non può dunque esistere: l’amore come qualcosa di unico e incorruttibile, saldo e immobile; nel suo lavoro l’amore è niente altro che lo specchio di se stessi e, in quanto la conoscenza di se stessi è inesatta se non impossibile, l’amore altro non sarà che una menzogna e una esigenza di ritrovarsi nell’altro e sempre in maniera scostante e sconosciuta. Sembra prendere piede da Eraclito o, da un suo lontano vagito.

Questa opera è un’allegoria del tormento, del mutamento del pensiero umano che nel protagonista prende forma e dove le altre anime del romanzo non sono altro che sue creazioni; non hanno una reale fisionomia, non hanno colpe o meriti ma sono mosse e si consumano dalle sue idee. Quando descrive Maria nella sua bontà o nella sua nefandezza, in realtà tenta una misurazione di se stesso con se stesso.

Siamo davanti a un trattato di filosofia che spiega e crede in un uomo plasmabile e plasmato da se stesso come unica forma di sopravvivenza “mi sedetti a cavalcioni di un ramo e concionai gli abeti in basso, di cui volevo sovrastare il mormorio con la mia voce, credendo di essere un oratore che parlava alla folla”. Dunque l’esperienza della vita come esplorazione e sperimentazione di noi stessi, di noi non come creature umane ma quasi come continenti sconosciuti.

Un libro ‘pienamente moderno’, nel suo rapporto con le cose reali della vita; con la donna e moglie, a cui guarda come a un essere umano anziché a una donna, a una moglie; la donna è una donna di oggi e protagonista di una prima rivoluzione femminista. ‘Pienamente attuale’ anche nella condizione di padre; se non ancora presente come presenza fisica stabile e utile, presente nella consistenza emotiva, nel riconoscersi padre debole e discutibile, nel sapere sentire quell’amore estatico e indiscutibile.

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