LEE KONITZ O DEL SUONO SINCERO

di Massimiliano Venturini
Arte Musicale

«Una volta – ha raccontato Enrico Pieranunzi – subito prima di salire sul palco, Konitz disse a me, al bassista e al batterista: ‘Ok, ragazzi, siete pronti a improvvisare davvero?’. Ci ha dato una scossa. Ci siamo sentiti molto liberi, anche di suonar le note sbagliate, di andare ovunque». Questo è il jazz, questo era Lee Konitz. Scrivere un coccodrillo su un musicista spesso sconfina con l’agiografia, si rischia di confondere scelte etiche con scelte artistiche (sono diverse? O forse sono due facce della stessa medaglia). Il punto è che Lee Konitz era anche questo, la coerenza di una scelta interiore per trovare il proprio suono, la propria voce. Lui stesso ne era sempre stato consapevole, e costituiva il suo metro di giudizio quando incontrava giovani talenti. Li vedeva preparati, il grande Lee, ma non ancora pronti per il vero passo, quello che aveva trasformato John Coltrane nella seconda, ineguagliabile pietra miliare del jazz. Scomparso il 15 aprile 2020 per complicazioni da Covid-19, il sassofonista era, molto semplicemente l’incarnazione del jazz, quella capacità di andare oltre le convezioni, il compitino della serata e dare vita alle note, trasformandole in musica. Attivo dagli anni Cinquanta, il solo ad aver sviluppato uno stile diverso da Charlie Parker ed essere rispettato. Talento, e gli studi con il geniale, apollineo pianista Lennie Tristano gli permisero di diventare uno degli astri del cool bop, passando indenne attraverso l’esperienza delle orchestre, dei quartetti bluesy, fino al nonetto di Miles Davis. Leggendari i suoi unisono con l’altro pupillo di Tristano, Warne Marsh, che però tale rimase nell’immaginario del pantheon della musica afroamericana. E poi il volontario esilio negli anni Sessanta – come un Sonny Rollins che si ritirò a meditare sotto un ponte per due anni- per poi tornare, negli anni Settanta. L’implicitazione del ritmo, il fraseggio raffinato di derivazione clarinettistica, le ritmiche del suo maestro rielaborate in una veste ormai da leader, trovano testimonianza nelle incisioni dagli anni Ottanta fino alla fine, per etichette come SteepleChase, Philogy, Soul Note, ECM. Scelte etiche, che hanno disegnato il percorso quietamente rivoluzionario di una colonna della sola musica che abbia attraversato il secolo breve trasformando la rabbia in creatività. Dall’incredibile Subconsciuos-Lee, debutto nel 1950, si sono susseguite decine, centinaia di incisioni, con una sbalorditiva serie di capolavori dal mitico Duets del 1967 in avanti. Il paradosso del jazz è anche questo, l’impossibilità di tramandare il “right here, right now” che rende l’improvvisazione una ricerca interiore ( Konitz), spirituale (Coltrane), metafisica (Braxton), estetica (Coleman) se non attraverso il supporto fisico che lo priva dell’attimo fuggente, firma del capolavoro. Non ci ha lasciato frasi lapidarie, Lee Konitz, o battute fulminanti come il diabolico Miles Davis, ma un libro lungo una vita intera su cosa possa definirsi musica vera.

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