MOSTRA DI CANOVA AL MUSEO DI ROMA, PALAZZO BRASCHI

di Francesca Sallusti

Un pellegrinaggio di intenti antichi, splendidamente rintracciati attraverso uno sfrenato capitolo di dogmi accuratamente corteggiati e, ritrovati come un ritorno a una casa agognata, si delineano attraverso la mostra.

Come un’orma, la prima orma è di Mengs, nella sua “Allegoria della storia e del museo”, in cui l’incarnato pastoso è di vera carne e l’olio della tela si maschera di cera o di pastello e, negli occhi, cerchi mossi dal tempo seppur ideali e fermi a un incanto o a un incastro diligentemente fermo; nella fisicità a larghe tese dimora il presupposto mitologico.

Anche nel “Mosè”, gli occhi, come due distillati di eternità, sono mossi da una realtà, da un tempo a loro ostile; quasi costretti a essere vigili. Dolcemente inglobato nel giogo neoclassico, sospeso nel suo tracollo melodioso e periglioso, sviante ed ebbro, Canova espone nella pietra, nel gesso e nella terracotta gli indumenti dell’idealità seppur intrisi di malinconia e “perdizione”.

Nel “Clemente14”, in terracotta, la scultura pare irrigidita dal suo stesso stupore, quasi, e la paura, generata da se stessa; un’ ontologia del male intravedibile nel linguaggio di un corpo e nella resa della terracotta sulla veste frastagliata; la disperazione emana sul tessuto un vigore malefico.

Nella “Mansuetudine”, sempre in terracotta, una minuscola isola rincagnata su se stessa, una preghiera, un fedele nel suo ultimo respiro. Il capo chino su di sé è una tana in cui la morte si sedimentizza e dunque, tutta la fisicità è un possibile giaciglio della morte; chiuso rispettosamente a cingerla.

Nella “Testa della Temperanza”, in gesso, una gota, ampia ma raccolta in un nido di carne, chiede di porgere un bacio mentre, l’altro fianco del viso è prostrato, quasi monco sul collo. Questo enorme volto sembra cullare simultaneamente “l’occasione” e la “prudenza”, narrare, nonostante le diverse nature o destinazioni delle due gote, la stessa fiaba; gota a gota, nettamente distinte e nutrite dalla cura alternata del suo pensiero.

Nella “Religione”, in terracotta, si instaura una” missione perpetua” nel volto giovane ed esotico e lo slancio della gaiezza si sfalda o si sfigura nell’impassibilità e nella certezza, nel ristoro che essa cede al fedele impaziente e disperato e, nel corpo cinto dalle onde costanti e calme dell’abito. Le mani indefinite e informi contengono la spiritualità e portano la croce lignea come un’insegna incorruttibile.

Come un satellite, vaga “l’Amorino”, nel cammino tra un versante e l’altro del suo volto. Un versante contiene i lineamenti placidi della pianura, l’altro, una divagazione o una promessa di morte. Nel torace si dipana la letizia dell’infanzia e, nel corpo si perpetuano le antiche battaglie.

Nella “Maddalena penitente, il corpo è concepito organicamente e stinto dal tempo o dall’acqua; fradicio, e il volto pare somigliare a una spina nel cuore di chiunque; è un volto assoluto.

Nella sala dei gessi, il movimento viene percepito come un tentativo; i suoi moti sono “racchiusi” per essere osservati intimamente; girano su se stessi slanciati energicamente. Pare di poter partecipare a un moto catturato, non ancora pienamente sviluppato; come un elegante incipit spezzato dal caso.

Nel ”Creugante”, tutto questo permane, ma un realismo, un dissenso nell’espressione è incastonato sopra a una fisicità di atleta. Un compromesso tra l’ideazione della perfezione nella resa muscolare e nel moto equilibratissimo e forte e la tentazione di riprodurre sul volto la tenebra umana. Appaiono, tratti combinati su altri, che paion corteggiarsi; diverse contrade unirsi su un’unica lingua di terra e cospargersi, contaminarsi l’una dell’altra.

Nei disegni provenienti da Bassano del Grappa, i chiaroscuri densi, i corpi definiti da linee mosse e sensuali come isole felici, creano morbide campeggiature; i visi sono realistici se non grotteschi in alcuni casi; anche qui un felicissimo tentativo di compiacere la purezza della linea e il vigore di un pathos.

Nell’ultima sala la “Stele di Giovanni da Volpato” si annuncia col bel contrasto tra il basso rilievo del Volpato e l’alto rilievo che intaglia la figura femminile, contrasto in cui la volitività del protagonista emerge più aggressivamente e pare di maggior aggetto seppur di una densità materica minore nella trattazione. Nel volto della figura femminile, piegato su se stesso e assorto, si perpetua “l’assalto”; tratto che il Canova “pare voler tenere riposto” e adombrato dalle beltà snelle e asciutte di pura estensione neoclassica.

“Nell’Endemione dormiente” l’editto severo e turgido del neoclassicismo è scapigliato da un “primo sogno” che comincia a districare le linee del corpo; ruba, come un popolo vincente su un altro, tutto lo spazio. I due punti di vista (i due Endemione posti diversamente nello spazio) mostrano la” possibilità”, attraverso l’evidenza della bellezza e dell’armonia, concepite secondo le migliori istanze della linea compostissima, seppur spensierata nella mollezza e gaiezza del suo tragitto.

“Nell’Amore e Psiche”, la dolcezza delle membra e il loro “bel modo”, riportano una tregua, una salvezza l’uno dell’altro grazie all’altro. Si tramanda di una consapevolezza e non di un incanto o , di un incanto perso, si palesa la morbidezza del disincanto, accettato e vissuto dignitosamente, una sorta di coscienza estratta dall’impegno del pensiero giovane e dalla sregolatezza della “prima” bellezza. La farfalla, che da una mano cade nell’altra, è cinta dallo sguardo appena triste; e sarà questa tristezza fievole che rappresenterà la coscienza.

Di più netta discendenza neoclassica, la “Ebe”, negli slanci cristallini degli arti e , nel volto illuso da e di se stesso

All’interno della mostra, le foto di Mimmo Jodice a opere di Canova, parlano un altro idioma, decontestualizzano i lavori di quest’ultimo, portandoli nel nostro tempo ed emancipandoli dalla bellezza perpetua. Un tentativo degno e plausibilissimo.

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