NICK CAVE

di Massimiliano Venturini

Il 19 giugno Nick Cave ha girato in solitudine “Idiot Prayer”, il film concerto che verrà distribuito nei cinema di tutto il mondo i prossimi 16, 17 e 18 novembre. Attorniato da funzionari anti-Covid con termometri, operatori con le mascherine, tecnici dall’aspetto nervoso e contenitori di gel per le mani, il Bardo di Melbourne ha suonato alcuni dei suoi classici in versione solo pianoforte, “qualcosa di bello che parlava in questo tempo incerto, pur non essendo in nessun modo soggiogato ad esso” come ha dichiarato lo stesso Re Inchiostro.

Spiega Nick Cave: “L’idea di questo film è nata dai miei eventi ‘Conversations With…’. Amavo suonare versioni destrutturate delle mie canzoni in questi spettacoli, distillandole nelle loro forme essenziali. Sentivo che stavo riscoprendo di nuovo quelle canzoni e a un certo punto, ogni volta che avevo del tempo a disposizione, ho iniziato a pensare di entrare in uno studio e registrare queste versioni reinventate”.

Una formula che sembrava nell’aria all’indomani della pubblicazione di Ghosteen, ultimo album a firma Bad Seeds ma intimista e rarefatto negli arrangiamenti, tanto da assomigliare ad una meditazione in solitaria.

Un autore, Nick Cave, che ha sempre fatto di temi quali l’ambiguità, la morte, la consapevolezza e la follia, il confine tra bene e male, spesso frainteso e altrettanto di frequente osannato. Cresciuto in una famiglia benestante, madre insegnante, Nick Cave manifesta precocemente l’attrazione per l’abisso dell’animo umano. Eroina, tossicodipendenti, prostitute diventano già a 16 anni le frequentazioni abituali, assieme ad amene letture quali il Vecchio Testamento – di cui è un attento cultore. Musicalmente, la situazione parte in modo acerbo, con un punk di influenza inglese che non scalda nemmeno le cantine.

Il viaggio comincia quando i suoni passano ad una dans macabre elettro blues da gospel demoniaco, mescolando PIL e Tom Waits, Captain Beefheart e Leonard Cohen. La formazione che lo accompagna nasce dalle ceneri dei dimenticabili Boys Nect Door e diventano i Birthday Party guidati da Rowland Howard alla chitarra, e Mick Harvey piano e batteria. Fino al 1983 incidono 3 album (il secondo dei quali, imperdibile, é Prayers On Fire) e due Ep (tra cui The Bad Seed del 1983) e seminano quel che poi darà linfa vitale ai Bad Seeds.

Le due ultime release a firma Birthday Party lasciano semi fondamentali per il futuro dello sciamano australiano: The Bad Seed rivela quello che sarà uno dei cavalli di battaglia di sempre di Nick Cave, ovvero l’angosciante delirio in crescendo di “Wild World”. Sul secondo, Mutiny (1983), si mettono in luce soprattutto la litania spettrale di “Jennifer’s Veil” e l’allucinazione rumorista di “Mutiny In Heaven.

Da quello spartiacque che è stato il 1983, siamo arrivati fino al 2019, con capolavori assoluti come From Her To Eternity (1983), The First Born Is Dead (1984), The Good Son (1985), Murder Ballads (1996) e The Boatman^s Call (1997), nei quali l’animo umano non cessa di fornire evidenti prove della propria distanza dal bene e dalla luce. Eppure dalla fine degli anni Novanta i toni usati dal Re Inchiostro mostrano meno più braci e meno lapilli, come se il dolore – nella forma della morte del figlio e prima ancora dell’abbandono da parte della moglie – avesse aperto spiragli nella notte senza stelle del destino degli uomini.

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